Nuove Pratiche Generative dal Basso

 

L’altra città. Lo spazio pubblico contemporaneo: pratiche di rigenerazione
Calderoni Laura, XXVII Ciclo
Tutor – Prof.ssa Paola Gregory

Prescrivere_Liberare. L’ethos del progetto architettonico
Maria Clara Ghia, XX Ciclo
Tutor – Prof. Roberto Secchi, Prof. François Guéry


  • Recensione

L’altra città, per Laura Calderoni, non è una città differente da quella in cui viviamo quotidianamente, bensì una città diversa. Una città in cui i cittadini insieme agli architetti, ma non necessariamente, si riappropriano di quegli stessi spazi in cui hanno sempre vissuto, rigenerandoli e mutandone il significato. Ed è la parola rigenerazione a fornire la chiave di lettura fondamentale della dissertazione, lì dove per rigenerazione si intende letteralmente partecipazione. Due le premesse fondamentali: la prima è la ricerca di un nuovo significato dello spazio pubblico contemporaneo in contrapposizione a quello attuale. Uno spazio pubblico che sempre più incarna i caratteri della specializzazione, della mono-funzionalità e della rigidezza e che, non di rado, viene considerato un “sorvegliato speciale”, nel quale prosperano modelli di gestione misti pubblico-privato che celano sovente operazioni di spoliazione del patrimonio pubblico. La seconda premessa è l’accelerazione data dalle ICT – Information and Communications Technology – quali strumenti di inclusione e aggregazione, alla creazione di comunità sempre più desiderose di responsabilità e reciprocità, rivelando nuovi modelli e nuove possibilità di gestione condivisa dello spazio pubblico.

Due sono anche le scale prese in considerazione nella dissertazione: quella transnazionale e, con un notevole salto, la micro-scala del quartiere. Pochi risultano, in realtà, i casi studio di rilevanza transnazionale – e che coinvolgono quasi esclusivamente programmi dell’Unione Europea – mentre, non a caso, ampio spazio viene dato all’interno della trattazione a quei casi studio e a quelle vicende legate alla scala del quartiere. Vicende che, se osservate superficialmente, poco hanno a che vedere con l’architettura costruita e progettata ma che, forse più delle altre, sono in grado di riattivare e ricostruire interi frammenti di città. Social-street attraverso cui far rinascere rapporti di comunità e di vicinato, progetti di autocostruzione, giardini condivisi autogestiti che si estendono, quasi linearmente, tra le ampie aree abbandonate delle periferie, playground spontanei e altalene sonore, fusione di gioco e information technology. Pratiche e azioni che, sebbene costituiscano un corpus disomogeneo e frammentato, hanno la capacità di risignificare i luoghi in cui vengono messe in atto. Ognuna di queste esperienze viene descritta in dettaglio, ne vengono analizzati i punti di forza e le criticità così come l’impatto nell’area urbana circostante e la ricezione dell’opera da parte dei cittadini. Sottolineando una volta ancora l’importanza che la comunicazione e le nuove tecnologie informatiche hanno avuto nel loro sviluppo e nella loro diffusione, viene infine analizzato l’impatto dei progetti tra i media digitali. Figura denunciata solamente in chiusura ma ben presente in ognuno dei progetti in esame è quella del mediatore. Forza catalizzatrice che rende nella pratica possibili queste esperienze, sopperisce alle mancanze e all’impreparazione delle amministrazioni, più volte evidenziate nel testo.

Se da un lato, con un’operazione quasi compilativa, L’altra città rammaglia vent’anni di esperienze attorno alla rigenerazione dello spazio pubblico fatte di partecipazione e inclusione, dall’altro l’autrice si cala in prima persona in un processo partecipativo narrando, in ultimo, la propria vicenda. Una vicenda anche in questo caso legata alla scala del quartiere e che ha luogo nel territorio romano. E sono le riflessioni su questo processo in particolare a mettere in luce come tutte quelle pratiche, analizzate nel corso della dissertazione, non abbiano valore in quanto esperienze singole ma come parte di un più ampio insieme di strategie replicabili nei loro caratteri fondativi. Strategie che aspirano a ricreare proprio quel nuovo significato dello spazio pubblico contemporaneo quale fucina della “creatività dell’uomo ordinario”, luogo della sperimentazione e dell’integrazione.

Molti i punti in comune ma, allo stesso tempo, notevoli le differenze in Prescrivere_Liberare di Maria Clara Ghia. Ciò che anima la sua dissertazione non è la ricerca di un nuovo significato dello spazio pubblico, ma l’interrogarsi sul senso e sul significato dell’agire dell’architetto e del progetto architettonico nel suo complesso. Ethos è in questo caso la parola chiave e, per comprenderne il portato teorico e il campo di applicazione, viene studiata etimologicamente e storicamente; si riscopre un’etica quale prassi attiva in cui il fare “verso” si trasforma in fare “insieme”. In un momento storico in cui l’architetto si riconosce nell’impossibilità di legittimare in piena autonomia il proprio operato, questi deve dismettere la propria figura di “personaggio” – colui che crea mode e stili –  per accogliere quella di “mediatore”. Mediatore che assume, però, un significato sensibilmente differente rispetto a quello emerso nelle pagine di L’altra città. L’architetto diviene qui un medium, un captatore di segnali esterni che convergono nell’opera per avverare quello che si rivela essere il fine ultimo dell’etica: la creazione della “giusta dimora dell’uomo”.

Un testo denso, scritto per metafore, dal taglio spiccatamente filosofico in cui gli argomenti sono trattati a volte solo con accenni, spunti di una riflessione successiva, ma sempre attraverso la contrapposizione dei due termini che conformano e danno nome al testo: prescrivere e liberare. In contrasto, ma più spesso necessarie l’una all’altra si configurano dapprima come categorie in cui convogliare dialetticamente norma e sperimentazione, creatività e tecnica, quindi come risultante di poteri. In un’analisi che aspira quasi un’“antropologia dell’architettura”, vengono prese in esame le forze che agiscono sull’opera, dall’ideazione alla realizzazione. Contesto, committenza, architetto e utenza sono i poteri – le prescrizioni – che, per inverare la libertà, devono convergere e intonarsi tra di loro. Ma la ricerca di Prescrivere_Liberare non si ferma alla sola filosofia; poste in luce le premesse teoriche affronta i principali protagonisti della sperimentazione architettonica contemporanea FOA, K. Oosterhuis, M. Sei Watanabe per citare solo alcuni dei nomi più importanti. Rilegge le loro opere, la loro prassi progettuale e, attraverso successive analogie, definisce le relazioni tra motivazioni, intenzioni ed esiti. Intuisce in queste opere la possibilità di un agire etico e non stupisce che buona parte di queste siano installazioni o edifici-manifesto, luoghi architettonici in cui il dialogo tra architetto e società si esprime in maniera palese e quasi senza intermediari. Con gli stessi criteri vengono analizzate le “star” dell’architettura. Le loro opere però non vengono rilette come possibilità di un agire etico ma anzi, se ne denuncia l’incapacità di provocare il cambiamento profondo, l’a-critica riproduzione di una firma e, quasi, l’assenza di responsabilità.

La seconda metafora che informa il testo è quella del “viandare”. Come verbo – il viandare – identifica l’atto, quasi erratico, di attraversare i numerosi e diversi temi della dissertazione; come sostantivo – il viandante – individua una possibile figura della contemporaneità, un architetto che si muove privo di soluzioni certe accogliendo dubbi ed incertezze ma che, sopra ogni cosa, agisce in base alle circostanze. Con due esemplari figure di viandanti, e quasi con un passo indietro, si conclude il corpo principale della ricerca: Giancarlo De Carlo e Leonardo Ricci. Entrambi gli architetti sono indagati attraverso il loro pensiero e la loro produzione architettonica, quali simboli di “servitori” della collettività in contrapposizione alle mode e al narcisismo contemporaneo. Ritornano in questi due Maestri, con differenze e analogie, tutti i temi esplorati nel corso della dissertazione; il processo di partecipazione e dell’ascolto della collettività – ancora una volta l’architetto si fa mediatore di istanze esterne – la figura del viandante, l’etica del progetto.

L’architettura e la ricerca si configurano come campo di relazioni.


  • Stato dell’arte

Quello della partecipazione è ad oggi un tema ancora privo di un’identità condivisa: contraddizioni, fraintendimenti e mistificazioni sono possibili e non infrequenti. Benché l’attenzione sul tema non sia mai scomparsa del tutto nel corso degli ultimi cinquant’anni, solo da poco sono emerse spinte nuove e risorse sufficienti a farne argomento significativo del dibatto architettonico contemporaneo. La Carta della Partecipazione del 2014 o i programmi Urbact costituiscono degli esempi di come la necessità di coinvolgimento attivo della cittadinanza sia penetrata anche negli organi istituzionali; è con eventi come la 15° Mostra Internazionale di Architettura di Venezia del 2016, Reporting From The Front, che si dichiara esplicitamente al grande pubblico ciò che la partecipazione dovrebbe realmente essere: il ribaltamento del punto di vista. A lungo il coinvolgimento è stato considerato come un simbolo di dissenso e protesta, come sinonimo di autocostruzione o, al più, relegato come pratica ex-post. Capovolgere la prospettiva significa quindi, da una parte ripensare la partecipazione non più come evento anormale all’interno del processo di pianificazione e progettazione, dall’altra agire per mezzo di pratiche note ma con nuove finalità. Si fanno strada in questi anni parole e azioni che non sono del tutto inedite, inedita è l’intenzione con la quale vengono messe in atto. Si parla così di temporaneità, di quartieri e abitazioni incrementali, di agopuntura urbana e di riuso, questi sono alcuni dei termini che informano oggi il tema. Con la consapevolezza dei differenti tempi con cui la città si trasforma – il tempo lungo delle trasformazioni urbane in contrapposizione ai rapidi cambiamenti della società – queste pratiche si basano sull’idea di piccoli interventi puntuali sparsi sul territorio che, in maniera olistica, possano riattivare i processi di trasformazione del territorio.

Tra questi spiccano, ad oggi, la temporaneità ed il riuso. I progetti temporanei si caratterizzano per la loro capacità di prefigurare scenari futuri migliori o anche solo sperimentali, attraverso azioni reversibili e a basso impatto in grado di soddisfare non solo esigenze locali o limitate nel tempo, ma di protrarre i propri effetti nel tempo. Il riuso, invece, coinvolge tanto l’adattamento – ovvero la capacità del progetto di prevedere esigenze future e mutare in base ai cambiamenti – quanto il riutilizzo della materia architettonica oramai dismessa – lo scarto – per nuovi progetti. Le esperienze, passate e presenti, di Rural Studio sono di certo un emblema di questa visione dell’architettura e, a fianco di queste, prendono avvio pratiche di costruzione come il riutilizzo dei tetti al fine di creare nuove fattorie urbane o le cosiddette container city. Temporaneità e riuso non sono, come già detto, delle prassi nuove, ciò che cambia rispetto al passato è l’ampio spazio di autonomia che viene oggi concesso a chi vive quotidianamente questi spazi.

Queste pratiche affrontano la declamata minaccia della scomparsa dell’architettura con uno slancio positivo nei confronti del progetto, con ottimismo, e in condizioni in cui l’assenza di mezzi, di spazio e di materia si fa risorsa.


  • Intervista

M.D. – Perché la necessità di una tesi di dottorato sui temi della partecipazione e della rigenerazione dello spazio urbano oggi?

M.D. –  La partecipazione costituisce una rinuncia all’architettura? C’è il rischio che l’architetto scompaia in favore di altre figure o, per assurdo, è auspicabile che ciò accada?

M.D. – Affinché la partecipazione si avveri, quanto è importante l’educazione dei cittadini ai temi propri dell’architettura e della lettura dello spazio? Quali i modi per attuarla?

M.D. – Quali possono essere i successivi sviluppi della ricerca?


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